Lo staff deve essere riconoscibile: questa è una delle prime regole di un ristorante. Ma non solo: deve essere abbigliato in modo decoroso, possibilmente in linea con lo stile del locale. Ecco cosa dice la legge a proposito dell'abbigliamento da lavoro nel ristorante e cosa devi aver cura di adottare nel tuo.

L'importanza delle divise per l'immagine del ristorante: regole e buone norme

La divisa del personale rappresenta il biglietto da visita di un ristorante: che si tratti di un locale più o meno di tendenza, più o meno formale, è la veste (nel vero senso della parola) con la quale ci si presenta al cliente, ma anche quella che identifica e rende riconoscibile lo staff.

Prima ancora, però, la divisa è un obbligo di legge. Ha quindi una funzione operativa oltre che estetica e costituisce anche una garanzia di igiene.

Pulizia e ordine sono i requisiti principali dell’abito da lavoro, che deve sempre essere in sintonia con l’ambientazione e gli standard del ristorante. Ci sono però delle distinzioni che è opportuno fare in base alle figure professionali.

Vediamo come devi organizzarti se gestisci un ristorante e come puoi fornire ai tuoi dipendenti una divisa.

Cosa dice la legge a proposito delle divise per chi manipola il cibo in cucina

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Per chef e cuochi che nella cucina del ristorante si occupano di lavorare e cucinare gli alimenti, le norme che l’HACCP impone sono molto severe: alle divise si aggiungono cuffie e guanti (monouso).

Il copricapo per chi lavora in cucina è obbligatorio sempre

Il copricapo (che si tratti di bandana, cappello “a bustina” o dell’inconfondibile cappello da cuoco) è obbligatorio da indossare sempre. Anche chi ha la testa rasata deve farlo, perché serve ad evitare che ci si tocchi il capo con le mani mentre si sta cucinando.

Per il personale di cucina abiti comodi e traspiranti

Cuochi, aiuto-cuochi e personale di brigata indossano indumenti idonei al compito che svolgono quindi in primo luogo pratici. Pantaloni, giacche, t-shirt o polo, grembiuli (impermeabili per chi lava i piatti) in cotone (perché facilmente igienizzabile) o nei tessuti tecnici traspiranti di ultima generazione (più resistenti all’usura e ai lavaggi frequenti).

In ogni caso devono garantire comfort e freschezza davanti ai fornelli. Per questo motivo hanno una vestibilità comoda e pratica (con elastici e pieghe nei punti strategici del corpo per agevolare i movimenti e inserti di aerazione sotto le braccia).

Per lo chef una divisa riconoscibile ma pratica

Il caso specifico dello chef: anche l’occhio vuole la sua parte e le sue divise sono ormai sempre più ricercate. Possono essere scure, per marcare la differenza di ruolo, e spesso personalizzate con il nome, ma è comunque importante che siano più che decorose (oggi molti ristoranti hanno la cucina a vista). Scontato dire che la norma generale per tutti è che “bianco è meglio”: è il colore che più dà la sensazione di pulito e rende evidenti le tracce di sporco, in modo che sia più facile lavare.  

I dispositivi antinfortunistica sulle divise

Ci sono degli elementi della giacca da cuoco ai quali spesso si fornisce poca importanza ma che rivestono un ruolo fondamentale sul fronte della sicurezza.

  • I bottoni: devono garantire che, in caso di pericolo (ad esempio il contatto con le fiamme), la giacca si possa sfilare facilmente. Esistono particolari bottoni “a pallina” che sono chiamati non a caso bottoni anti-panico. Le divise più tradizionali hanno i bottoni in filato, realizzati a mano, per evitare il rischio che bottoni di plastica si surriscaldino e si sciolgano con il calore prolungato dei fornelli.
  • I paramaniche: si tratta dei risvolti stondati sulle maniche che a prima vista potrebbero apparire un banale modo di tirare la giacca sopra i polsi quando si cucina: hanno invece la funzione di riparare gli avambracci dai fuochi.
  • Le calzature: le leggi sulla sicurezza sul lavoro sono molto severe e prescrivono scarpe chiuse, leggere, fresche e traspiranti, con la suola antisdrucciolo e con la punta rinforzata (per i ristoranti servono quelle della tipologia S1).

Per tutte le figure che operano in cucina è fatto divieto di lavorare indossando anelli, bracciali e monili in generale, sia perché potrebbero inavvertitamente finire nei piatti e sia perché costituiscono un ricettacolo di batteri e sporco in generale.

L’abbigliamento del personale che serve ai tavoli: più libertà ma il decoro è d’obbligo

Cameriere e camerieri sono a diretto contatto con il pubblico: superfluo dire che quando prendono servizio, prima ancora di indossare la divisa (pulita e ben stirata) devono aver avuto cura di mettersi in ordine in senso generale.

Le donne dovrebbero avere il buon senso di utilizzare un make-up leggero e non troppo appariscente. Per loro non c’è l’obbligo di indossare la cuffia (tassativo, invece, per chi lavora il cibo) ma è comunque buona norma avere i capelli legati visto che si maneggiano le pietanze.

Se è vero che c’è più libertà nella scelta di pantaloni, giacche o gilet per chi lavora in sala e non in cucina, è fondamentale che la mise, oltre ad essere uguale per tutti i camerieri, sia ben abbinata con la scelta degli arredi e con lo stile del ristorante. In comune per entrambe le categorie di lavoratori, sia per chi è addetto in cucina che per chi è addetto invece a lavorare in sala, c’è l’obbligo di riporre la divisa in un apposito armadietto personale, separata dagli indumenti con i quali si arriva sul posto di lavoro, da borse, zaini e da qualunque altro effetto personale possa sporcarla.

Chi lava e stira le divise dei dipendenti: ecco cosa prevede la normativa

La legge dice anche che tocca al datore di lavoro provvedere al lavaggio e alla stiratura delle divise. Di norma è più comodo, invece, che ciascuno porti a casa la propria e provveda a lavarla e stirarla. In questo caso, però, al dipendente spetta un rimborso spese, lo sapevi?

Questo perché l’uso della divisa, scelta dal proprietario di un ristorante, non deve costituire una voce di spesa per i dipendenti. Altra questione spesso controversa è quella che riguarda il tempo necessario per cambiarsi: il cosiddetto “tempo-tuta”. Quei pochi minuti che servono per indossare e poi smettere i panni da lavoro devono essere compresi nell’orario di lavoro e quindi retribuiti (Corte di Cassazione, sentenza 9417/2018).

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